A due anni i bambini si affermano come persone e imparano a dire “NO”. È quel momento che chiamiamo “terrible two”. È certamente una fase importante per il bambino, che si scopre unico e distinto dai genitori, e per la sua crescita ma è anche la fase in cui mamme e papà acrobati devono capire come gestire loro figlio e… con quali acrobazie. Ogni bambino è diverso e non è detto che accada a tutti ma per farci trovare pronti abbiamo chiesto all’Associazione Pollicino cosa fare per sopravvivere al (a volte lungo…) periodo dei NO.

Da dolci cuccioli a dittatori prepotenti

Intorno al secondo anno di vita, in concomitanza con le prime conquiste motorie, nei bambini diventano più frequenti le ribellioni, le trasgressioni e i rifiuti: spesso iniziano ad apparire agli occhi dei propri genitori non più come dei cuccioli docili e accondiscendenti ma come dei piccoli dittatori in grado di pronunciare un forte e deciso “No!”, opponendosi a qualsiasi proposta o attività.

I diversi cambiamenti che i piccoli si apprestano a vivere a questa età rappresentano una tappa fondamentale di quel percorso che li condurrà, gradualmente, alla separazione fisica e psichica dai genitori, in particolare dalla madre, separazione fondamentale per posare i primi mattoni per la costruzione della propria identità soggettiva. Comincia infatti a emergere la personalità del bambino, il quale fa sentire la sua voce rispetto a una sempre maggior indipendenza, che gli consentirà a poco a poco di conquistare una posizione nel mondo sviluppando le capacità di autoaffermarsi, di esprimersi e di prendere delle scelte.

Il “No!”: affermazione (identitaria)

Se nel corso del primo anno il bambino scopre il gesto del no con la testa e a volte lo nomina anche, solo in seguito ne sperimenta e apprende il valore e le potenzialità all’interno di una relazione, incontrando un’esigenza sempre maggiore di far sentire il proprio pensiero. Non è quindi insolito per le mamme e i papà incappare in comportamenti oppositivi e provocatori, che si traducono in rifiuti decisi e ostinati a qualsiasi proposta e limite.

Poiché a tavola, oltre alle pietanze, circolano anche emozioni, affetti e aspetti connessi alle relazioni, accade spesso che l’oppositività infantile si scateni e venga agita al momento del pasto, trovando proprio nella tavola familiare un palcoscenico adatto. Il rifiuto di stare seduti ignorando i richiami della mamma o la predilezione del “No! Non lo voglio!” rispetto all’offerta di alcuni cibi (con la manifestazione anche di una certa selettività) innescano un vero e proprio braccio di ferro, estenuante e controproducente, che può portare i genitori a leggere questi atteggiamenti come dei capricci e a comportarsi di conseguenza: le mamme e i papà insistono con il cucchiaino e nelle cucine possono risuonare frasi esasperate del tipo “Se non mangi tutto, non ti compro il giocattolo che volevi tanto!”, “Se non assaggi la pastasciutta, arriva il lupo cattivo a prenderti!”. Qualsiasi stratagemma o tentativo, quindi, pur di porre fine alle lotte che prendono vita durante i pasti.

Come relazionarsi ai bambini durante la fase dei “Terrible Two”

Questo atteggiamento che il bambino, anche così piccolo, tiene a tavola gli consente in realtà di iniziare a riconoscere e a far riconoscere il suo diritto ad avere un gusto personale e delle preferenze in campo alimentare. Dall’altra parte, è giusto che i genitori stabiliscano e facciano rispettare dei limiti e delle regole, ma con una certa flessibilità: risposte punitive o insistenti rischiano infatti di esasperare la protesta, trasformandola in un rifiuto, talvolta categorico, di aprire la bocca. Ecco perché bisogna tenere presente che tale fase rappresenta un momento naturale di passaggio e di transizione, piuttosto che un aspetto definitivo e caratteriale del bambino: da qui l’importanza di fornire una lettura corretta ai comportamenti burrascosi dei piccoli, anche quando assumono l’aspetto di un capriccio.

Questa lettura certamente non è scontata e può essere faticosa, ma ha grande valore perché il “capriccio” non è mai un vero e proprio dispetto, quanto piuttosto una provocazione, una messa alla prova del limite: attraverso l’utilizzo del “No!”, bambini e bambine sperimentano la possibilità di differenziarsi dalla mamma e domandano ai genitori di poter essere ugualmente accettati, riconosciuti e amati anche come individui autonomi e diversi da loro.

Cosa si nasconde dietro al “No!”?

Con la crescita, possono poi servirsi del cibo come espediente per manifestare personali proteste o ribellioni, in particolare quando vivono una difficoltà rispetto a uno specifico momento: l’ingresso all’asilo o a scuola e la conseguente separazione, l’arrivo in famiglia di un fratellino o di una sorellina, il ritorno al lavoro dei genitori… Pur nella particolarità che contraddistingue ogni situazione, il “No!” del piccolo ribelle davanti al piatto può diventare presto un suo modo di dire “Sì! Io esisto”, un primo tentativo di affermare la propria soggettività: la resistenza o il rifiuto, dunque, possono non riguardare direttamente il rapporto con il cibo e la soddisfazione della fame quanto, piuttosto, rappresentare uno strumento per comunicare qualcosa alle persone che si occupano di lui, un modo di esprimere se stessi, come anche una fatica o un disagio. Il “No!” davanti al piatto può infatti veicolare paure, dubbi e domande che non riescono a essere tradotti efficacemente tramite l’utilizzo della parola.

Ed è così che le mamme, ma anche i papà, si trovano a dover affrontare questi estenuanti “No!” dei propri figli in diversi ambiti:“No! La merenda non la mangio, “No! Il bagnetto non lo voglio fare, No! Adesso non vado a dormire”. Sorgono quindi spontanee domande del tipo “Come devo comportarmi? Perché mio figlio fa così? Dove sto sbagliando?”, domande a cui si cerca di fornire la risposta giusta per trovare la modalità più appropriata di relazionarsi ai piccoli in queste situazioni.

Ogni famiglia è diversa e ogni relazione tra genitori e figli è unica. È sempre opportuno interrogarsi rispetto a quale significato si possa nascondere dietro a un “No!”, in quanto permette di aprirsi gradualmente a un atteggiamento diverso nei confronti delle proteste, che cerchi di accogliere le esigenze soggettive del bambino e della bambina, dando voce e comprendendo, al tempo stesso, le paure e le fatiche che incontrano. Accogliere significa poter riconoscere che ciascun figlio è diverso dall’altro, un soggetto unico e particolare da amare e non solo da educare. Significa anche comprendere che crescere può essere faticoso, un percorso tortuoso ricco di incertezze, dubbi, nuove scoperte, ai quali i piccoli rispondono con i mezzi che via via hanno a disposizione.

Articolo a cura di
Associazione Pollicino e Centro Crisi Genitori Onlus
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