In Italia esiste una legge a tutela della maternità che molti paesi ci invidiano.
Eppure nonostante questo non è per niente infrequente che, terminato il congedo di maternità, molte mamme si trovino vittime di discriminazioni, proprio a causa della maternità.
Spesso nella realtà accade che quando sta per avvicinarsi il giorno del rientro al lavoro molte mamme lavoratrici vengano “invitate” a presentare le dimissioni (gravando in capo alla ditta in forza dell’art 54 del decreto n.151/2001 l’assoluto divieto di licenziamento) con il concreto rischio che, se le lavoratrici decidano di non lasciarsi intimidire, la loro vita lavorativa diventi un vero e proprio inferno.
Sebbene infatti dal combinato disposto dagli art 32, 39, 41, 47, 53, 54, 56 del decreto n. 151/2001 il datore di lavoro debba riconoscere alla mamma lavoratrice tutta una serie di diritti, tra cui ad esempio il congedo parentale, i riposi giornalieri per l’allattamento, i congedi per la malattia del figlio, il diritto al rientro e alla conservazione del posto di lavoro, spesso la sola idea che tali diritti siano imposti, genera nella mente del datore di lavoro un meccanismo contorto per cui la mamma diventa un peso.
Peso che come tale deve essere scaricato.

 

Ecco perché si assiste a situazioni in cui, pur di impedire alla mamma-lavoratrice di usufruire appieno dei suoi diritti, diritti che ricordiamo sono riconosciuti dalla legge, vengono posti in essere dalle aziende e dagli uffici meccanismi e strategie tra i più subdoli possibili.
Ed ecco perché molto spesso un evento così speciale e unico come la nascita di un figlio, che dovrebbe essere uno dei più felici nella vita di una donna, viene oscurato dall’insorgere di disagi emotivi e psicofisici che possono anche essere molto gravi.

Come fare quindi a far valere i nostri diritti? E soprattutto si può parlare di mobbing?

Come prima cosa è bene ricordare che se il datore di lavoro non eccepisce nulla entro il periodo di prova, non ha più facoltà di mettere in discussione le capacità del dipendente.
Ne consegue che lo stesso non può essere più licenziato per incapacità professionale, né ricevere sanzioni disciplinari con la stessa motivazione (presunte incapacità professionali) ma eventualmente potranno essere comminate sanzioni disciplinari per comportamenti negligenti (come ritardi ripetuti nel tempo ovvero uso di beni aziendali per fini personali, appropriazione indebita di beni aziendali, uso del telefono per chiamate di carattere privato …).

In secondo luogo, ricordo che in base all’art. 56 del TU a tutela della maternità, al rientro dal congedo di maternità, le lavoratrici hanno diritto di conservare il posto di lavoro e, salvo che espressamente vi rinuncino, di rientrare nella stessa unità produttiva ove erano occupate all’inizio del periodo di gravidanza o in un altra ubicata nel medesimo comune, e di permanervi fino al compimento di un anno di età del bambino. Inoltre, riguardo alle mansioni, le lavoratrici hanno diritto di essere adibite alle mansioni da ultimo svolte o a mansioni equivalenti.
Pertanto, almeno fino all’anno del bambino, non si è obbligate ad accettare il declassamento, né l’eventuale richiesta di licenziamento.

Quando si può parlare di mobbing?

Il mobbing è, nell’accezione più comune in Italia, un insieme di comportamenti violenti (abusi psicologici, angherie, vessazioni, demansionamento, emarginazione, umiliazioni, maldicenze, ostracizzazione, etc.) perpetrati da parte di superiori e/o colleghi nei confronti di un lavoratore, prolungato nel tempo e lesivo sia della sua dignità personale e professionale sia della sua salute psicofisica.
Per parlare di mobbing non è, quindi, necessario che i singoli atteggiamenti molesti (o emulativi) raggiungano necessariamente la soglia del reato né che debbano essere di per sé illegittimi, ma è sufficiente che nell’insieme producano danneggiamenti plurioffensivi anche gravi con conseguenze sul patrimonio della vittima, la sua salute, la sua esistenza.

Tuttavia, per poter parlare di mobbing, l’attività persecutoria deve durare più di 6 mesi e deve essere funzionale alla espulsione del lavoratore dalla vita aziendale, causandogli una serie di ripercussioni psico-fisiche che spesso sfociano in specifiche malattie (disturbo da disadattamento lavorativo, disturbo post-traumatico da stress) ad andamento cronico.

Nella prassi si distingue, fra mobbing gerarchico e mobbing ambientale; nel primo caso gli abusi sono commessi da superiori gerarchici della vittima, nel secondo caso sono i colleghi della vittima ad isolarla, a privarla apertamente della ordinaria collaborazione, dell’usuale dialogo e del rispetto.
La pratica del mobbing, quindi, consiste nel vessare il dipendente o il collega di lavoro con diversi metodi di violenza psicologica o addirittura fisica.
Ad esempio: sottrazione ingiustificata di incarichi o della postazione di lavoro, dequalificazione delle mansioni a compiti banali (fare fotocopie, ricevere telefonate, compiti insignificanti, dequalificanti o con scarsa autonomia decisionale) così da rendere umiliante il prosieguo del lavoro; rimproveri e richiami espressi in privato ed in pubblico anche per banalità; dotare il lavoratore di attrezzature di lavoro di scarsa qualità o obsolete, arredi scomodi, ambienti male illuminati; interrompere il flusso di informazioni necessario per l’attività (chiusura della casella di posta elettronica, restrizioni sull’accesso a Internet); continue visite fiscali in caso malattia, etc…
Insomma, si configura il mobbing quando si pone in essere un sistematico processo di “cancellazione” del lavoratore condotto con la progressiva preclusione di mezzi e relazioni interpersonali indispensabili allo svolgimento di una normale attività lavorativa.

Purtroppo, in Italia, il mobbing non è configurato come specifico reato a sé stante, ma gli atti di mobbing possono rientrare in altre fattispecie di reato, previste dal codice penale, quali le lesioni personali colpose, ovvero gravi o gravissime, che sono perseguibili di ufficio e si ritengono di fatto sussistenti nel caso di riconoscimento dell’origine professionale della malattia (anche le ipotesi di reato di ingiuria, minaccia ovvero diffamazione).

La legge italiana, poi, disciplina anche il risarcimento del danno biologico, associabile a situazioni di mobbing, tanto più che in base l’art.2087 del cod.civ. grava sul datore di lavoro (quindi anche sul capo ufficio che rappresenta il datore di lavoro in azienda) l’obbligo contrattuale, di tutelare la salute e la personalità morale del dipendente.
Senza parlare di tutti gli art. della Costituzione italiana volti a tutelare la persona in tutte le sue fasi esistenziali, da quella di cittadino a quella di lavoratore.

Valga per tutti l’esempio con cui la Corte di Cassazione, con sentenza n.19232/2005, ha previsto la sanzione del licenziamento per il capo ufficio che si rivolge, nell’ambito dell’espletamento delle sue funzioni, ai suoi colleghi con atteggiamento arrogante e con espressioni violente, offensive e volgari.  

Concludendo si può dire che in Italia le leggi giuste esistono, solo che molto spesso non sono conosciute e nessuno si preoccupa di farle rispettare.

E’ comunque importante ricordare che è importante lottare per i propri diritti, soprattutto se si tratta di maternità; perchè ogni volta che ognuna di noi rinuncia ad un proprio diritto, non fa una scelta solo per se stessa, ma anche per tutte le altre lavoratrici e contribuisce ad incrementare il divario tra ciò che è e ciò che dovrebbe essere.

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Mammeacrobate.com è un portale di informazione e confronto su maternità e genitorialità, uno spazio nel quale le mamme si raccontano e si scambiano consigli, racconti ed esperienze di vita grazie alla collaborazione con professioniste che mettono a disposizione di altre mamme e donne le loro competenze e grazie a mamme che si raccontano per socializzare problematiche o stralci di quotidianità.

6 Comments

  1. veronica

    adesso leggendo queste note mi rendo conto di essere stata vittima di mobbing
    mi è stata imposta per prima cosa la maternità facoltativa quando invece io sarei rientrata al nono mese di vita della mia bambina, poi mi è stato imposto il part time, poi mi hanno messo a fare le fotocopie e poi mi hanno comunicato che la ditta chiude ed apre una società e il mio contratto a tempo indeterminato viene sostituito da un determinato a sei mesi sempre part time!!!!
    e in più sia io che la mia collega siamo state riprese più volte per errori in mansioni che non ci competevano e non ho avuto neanche possibilità di difendermi o discolparmi, sono stata solo accusata
    non ho parole!!!
    cosa posso fare??
    grazie

  2. Già, io prendo atto di cosa sta accadendo, ma come dimostrarlo? Perchè comunque dovrò continuare a lavorare lì e chi vive più dopo. Se già ora mi fanmno sentire inutile, inadeguata, incompetente incapace ..e fino all’ultimo, prima della gravidanza ho preso l’ennesimo aumento dopo 20 quasi di complimenti per il mio lavoro. Ora son tre anni che non valgo più nulla, mi stanno masssacrando psicologicamente e non so più come difendermi o venirne fuori

    • ManuAcrobata

      Ciao Nadia, posso solo immaginare la situazione che stai vivendo. Hai provato a parlare con qualcuno? Sindacato? Avvocato? Se vuoi in privato possiamo provare ad aiutarti….
      Nel frattempo ti abbraccio
      M

      • Per ora ti ringrazio dell’affetto che mi hai dimostrato, ti assicuro che mi fa un immenso piacere. Ho tentato qualche strada senza “troppa cattiveria ” per paura di peggiorare le cose, anche perhcè già per quello che ho fatto e detto qualche ripercussione, anche se non pesante, c’è stata. Grazie ancora. Accetto e ricambio l’abbraccio!

  3. Leggendo questo articolo mi riconosco in tutto e per tutto, perfino le visite fiscali (2 in una sett di malattia) 🙁 il problema è dimostrare purtroppo…è molto deprimente passare dal top a 0 purtroppo dopo aver avuto la gioia di avere una bambina!un abbraccio