Quando a luglio dello scorso anno ho appreso la notizia che due giovani italiane, volontarie e cooperanti di pace in Siria – perché di questo si trattava e si tratta – erano state fermate nei loro semplici sogni di umanità per ragioni incomprensibili, ho avuto un tuffo al cuore.
Lo dico subito: io sono partita in un luglio torrido dalla Stazione Centrale di Milano, a vent’anni, con Silvia, una mia compagna di liceo e amica carissima, destinazione Bosnia Erzegovina.
Geografie, condizioni politiche e storiche, viaggi e associazioni diverse, lingue differenti : verde al posto del giallo, post-guerra invece che guerra, treno e non aereo, serbo-croato e non arabo.
2002 al posto del 2014.
Sono certa che gli zaini fossero simili ai nostri, come l’ansia dei genitori. Salviette umidificate, lo stretto necessario e tanta, anzi tantissima, voglia di dare senza lontanamente immaginare quanto si potesse in realtà ricevere.
Ricordo ancora quando dissi a Silvia:
“Voglio andare in Bosnia a far giocare i bambini, vieni con me? Dobbiamo pagarci il viaggio e il mangiare, dormiremo per terra in una scuola nei sacchi a pelo e staremo con altri giovani volontari provenienti da tutta Italia”.
Ricordo i suoi grandi occhi, ricordo il suo deciso “Sì”, senza troppi fronzoli.
Era essenziale, come deve essere una ventenne.
E siamo partite per giocare con i bambini, lavandoci poco e prendendo le pustole sulle braccia.
Siamo tornate a casa in autostop fino a Zagabria dall’autostazione di Bihac, tirando un respiro di sollievo solo a Venezia. Ci scadeva il visto a mezzanotte, avevamo perso il bus insieme ad altri quattro volontari.
Una frontiera passata a piedi con la polizia croata che voleva sapere cosa stavamo facendo lì in tedesco mentre ci svuotava gli zaini come se fossero spazzatura…
Ricordo le macchine accese collegando i fili elettrici, ricordo il nostro cartello con scritto “Zagreb” e il camper di una coppia di Torino: ci accompagnarono per qualche chilometro dentro la più ricca Croazia…lei ci abbracciò forte e ci diede da bere e mangiare, che bella che era…quel camper ci sembrava l’Italia intera.
E ancora i cartelli che segnalavano le zone minate, le “Zimmer” in affitto, le sigarette nazionali bosniache, la lettura dei fondi di caffè, la chitarra di un volontario, il canto del Muezzin da dentro la moschea.
Ricordo il furgone con il materiale per i bambini fermo una settimana in frontiera, perché in certe condizioni tutto ha un prezzo (anche se si tratta di pennarelli e fogli di carta).
Io non so proprio perché sono partita e perché ci sono ritornata l’anno successivo…giuro che non so dare ancora una spiegazione.
Quello che posso dire è che ad un certo punto si parte e che ad un certo punto si deve ritornare.
Greta e Vanessa meritano un bagno caldo in vasca a casa delle mamme, piangendo per il senso di pieno e vuoto che lasciano certi odori e certi volti di bambine e bambini. E poi ripartire mano nella mano per la Siria o per “l’ovunque” in cui ci sia spazio per ricevere umanità.
photo credit: nicolas haeringer via photopin cc
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