Quando non ero ancora grande vivevo in una splendida cameretta. Tutta mia.

La mia cameretta era molto ampia e luminosa e spesso, nei pomeriggi di bambina, ospitavo le mie compagne di scuola, se non altro per farmi una sana mangiata di pop-corn in compagnia.
Fuori dalla mia stanza c’era il resto della casa, una grande casa, con molte stanze e molti spazi; le orme del mio passaggio, però, erano prevedibili: l’unico tragitto che percorrevo era quello camera-giardino e, qualche volta, camera-studio.

A calamitarmi nello “studio” nei pomeriggi noiosi c’era la mia amica più fedele: la televisione.
Poco più in là nella stanza c’era la solenne scrivania dei miei genitori, dietro la quale c’era la loro libreria.

Ricordo bene le due vetrine: una di mamma, ben chiusa con sette giri di chiavistello, quattro lucchetti e un catenaccio di acciaio, e una di papà, completamente rivestita dall’interno di carta per occultarne il contenuto. Ricordo gli scaffali pieni di libri e di scatoline meravigliose assolutamente inaccessibili; le ante poste alla mia altezza erano ben chiuse con le chiavi – le quali venivano metodicamente nascoste in un vasetto, dentro a un armadio, dietro a un libro, negli scaffali alti (dovevo essere decisamente una bambina pestifera).

L’unico microscopico angolo della zona studio in cui mi era consentito dagli adulti toccare qualcosa era metà di un cassetto della scrivania di mio padre (sì, metà – da qui a qua!) che conteneva alcuni oggetti di cartoleria: qualche penna, una gomma, le forbici e poco altro.

Sono passati da allora sì e no venticinque anni eppure ricordo nitidamente, e ancora oggi con grande emozione, quell’idea di condivisione col mio papà, il piacere di ricevere fiducia concedendomi l’accesso a uno spazio non mio; provavo un grande senso di responsabilità e il desiderio di dimostrare di meritare la fiducia che mi era stata accordata.

Quando cambiammo casa avevo circa 14 anni, non ero decisamente più una bambina ed ebbi il privilegio di scegliere personalmente la stanza della casa che preferivo diventasse la mia.
Oltre la porta della mia nuova cameretta si estendeva, come nella vecchia abitazione, il resto della casa in stile “di mia nonna”, verso cui il mio senso di appartenenza era circa pari a zero; avevo oramai libero accesso a ogni zona della casa (salone di rappresentanza incluso!) e a ogni armadio o cassetto ma, dal mio punto di vista, quelli erano spazi loro, degli adulti, e questo nonostante i miei genitori preferissero identificarli come nostri, soprattutto quando si trattava di fare le pulizie domestiche…

Mamma e papà, evidentemente acuti osservatori del mio stato d’animo, decisero allora di regalarmi – a mia insaputa – un nuovo arredamento che certamente, secondo loro, mi avrebbe aiutato a simpatizzare maggiormente con la nuova casa, nonché con la mia nuova stanza.

Il novello arredamento era composto da una scrivania leggera come un catafalco con piano d’appoggio in vetro, un letto con doppia testata con volute barocche e, a completare il corredo, due mensole abbinate con reggi mensola incorporato sempre con il ricciolo baroccheggiante, il tutto in legno massiccio color noce scuro con preziosissimi intagli a mano in noce chiaro. Un colpo di genio regalare (o imporre?) una fornitura di mobili di questo genere a un’adolescente. A prescindere dalle buone intenzioni.

Da incolta ragazzina non apprezzavo certamente né il valore economico “nel presente e nel futuro” di cotanto pregevole mobilio, né tanto meno lo stile “di mia nonna”.
Il letto, che in fondo in fondo aveva un non so che di romantico, accoglieva il materasso in un solido perimetro di legno: credo siano state le incalcolabili craniate prese di notte contro quella struttura che mi hanno fatto presto decidere di abbandonare quel letto scomodo, quella cameretta che proprio non soffrivo e quell’abitazione che non mi apparteneva affatto; decisa ad uscire di casa andai ad iscrivermi alla facoltà di architettura: meditavo vendetta!

Diventata grande e accasatami, mi sono ritrovata a vivere in una dimensione conosciuta soltanto in modo indiretto e quindi, di fatto, sconosciuta: una casa. Avevo un intero appartamento a completa disposizione da poter gestire, organizzare e arredare come meglio credevo.
La prima decisione presa è stata disporre gli ambienti e gli spazi, organizzarli e arredarli per imitazione delle case consuete.

Il criterio che ha accompagnato tutta la prima disposizione di casa è stato quello di creare le tradizionali zona soggiorno e cucina funzionali alle nostre esigenze di adulti e una zona notte con il bagno, la camera dei genitori e l’immancabile cameretta della bambina.

Oggi le bambine sono diventate due (…) e la disposizione del nostro appartamento è stata modificata per accogliere le nuove coinquiline in modo che possano sentire la casa e gli spazi in cui vivono con il medesimo senso di appartenenza, di rispetto e di responsabilità di noi adulti.

La logica che abbiamo seguito, e di cui parlerò in questa sezione, risiede nel concetto di “fare spazio” ai nostri figli in modo organico e ragionato in quelle che oggi sono invece case adultocentriche.

Questo modo di procedere, sia chiaro, non autorizza i figli a un’invasione barbarica che trasforma la casa in un luogo selvaggio di loro esclusiva proprietà, relegando i genitori a vivere nel surrogato di un parco giochi e privandoli della pace.
Piuttosto si incentra su un’operazione di vero e proprio abbattimento delle barriere domestiche, sull’organizzazione degli spazi che creano angoli di gioco e di completa autonomia tali per cui i bambini sono liberi di muoversi in casa loro – così come lo siamo noi – avendo accesso alle loro cose, riposte accanto alle nostre.

Ho deciso di collaborare con MammeAcrobate per proporre una riflessione sull’importanza che ha lo spazio di una casa per ognuno dei suoi abitanti, figli compresi, e sul fatto che molto spesso noi adulti non ci accorgiamo di creare per i bambini delle vere e proprie barriere domestiche che gli impediscono di fare anche le più banali azioni in autonomia, come ad esempio prendere un foglio di carta e disegnare oppure prendere un libro per sfogliarlo seduti comodamente sul divano.

E voi come ricordate la vostra casa di quando eravate bambine?

Cosa rappresenta per voi la casa? Un luogo dove esprimere la propria personalità? Un tetto sotto cui ripararsi? Un nido per la vostra famiglia? Un’occasione per socializzare con gli amici?

Author

Architetto specializzato in spazi per l’infanzia, è curatrice della sezione “Case ad altezza di bambini” nel portale MammeAcrobate.com. È inoltre presente sul web con il sito personale www.caseperbambini.it e l’agenda online www.speziabimbi.it

8 Comments

  1. sabiacrobata

    casa mia è un po’ tutte queste e gli ambienti sono abbastanza legati l’uno all’altro. l’unica stanza che non viene davvero vissuta è la camera da letto… c’è un grande armadio guardaroba e i letti (tutti e tre visto che gabri dorme in stanza con noi, pur avendo la sua cameretta)
    in tutte le altre stanze gabriele si puo’ muovere liberamente e puo’ prendere possesso di oggetti, libri, spazi. Devo dire che essendo la casa nata con lui, con lui sta crescendo, quindi è stato più semplice creare degli ambienti che non si scontrassero con le sue esigenze. Almeno, questa è stata la nostra volontà

  2. sabiacrobata

    Aggiungo, quando ero piccola ho sempre abitato in case minuscole, in 4 in 45 metri quadri! quindi era un po’ difficile tenere gli oggetti fuori dalla portata di due bambini piccoli! abbiamo imparato a condividere gli spazi e ad aver rispetto delle cose altrui…

    • Maya Azzarà

      Spesso la questione viene ridotta ad un problema di metri quadri: si crede che case piccole non si prestino ad una duplice accessibilità.

      Gli spazi in casa tua erano talmente ridotti che sarebbe stato inverosimile non avere promiscuità tra le vostre cose e quelle degli adulti.
      Ebbene: ma allora, se è possibile condividere in 4 un appartamento di 45mq –che non significa vivere nel caos se si provvede ad assegnare ad ognuno i suoi spazi- non è forse possibile condividere un appartamento anche più grande?

      E’ limitativo focalizzarsi solo sull’estensione delle superfici orizzontali di una casa (mq); esiste anche una [b]superficie verticale[/b], quella delle pareti, ed il cui spazio occupato è generalmente quello che parte da terra e arriva fino ai 2 metri d’altezza circa (considerate come riferimento che una porta standard è alta 2,10metri).
      In Italia, tuttavia, i soffitti delle stanze hanno un’altezza minima di 2,70m. Questo significa che la fascia più alta delle pareti verso il soffitto-che raramente viene sfruttata- è di circa 70-80 cm.

      Non sarebbe risolutivo, allora, traslare gli spazi occupati dall’adulto di 80cm verso l’alto?
      In questo modo verrebbe “liberata” la fascia da terra agli 80cm….proprio quella a portata di bambini.
      Si potrebbe obiettare che per arrivare così in alto gli adulti necessitano di scalette o sgabelli e che l’accesso alle cose riposte sopra ai 2metri d’altezza diventa quindi difficoltoso o macchinoso. Questo è vero, ma non è anche vero che i bambini spesso devono munirsi di rialzi per arrivare al gabinetto o per accendere un interruttore? E pensare che questi ultimi sono gesti quotidiani…

      Grazie per il tuo commento!

      Maya

  3. manuacrobata

    Quando ero piccola non vivevo in una casa pensata a misura di bambino. Avevo una grande e ampia stanza tutta per me che era (e lo è stata fino a quando non sono venuta via) il MIO REGNO! Avevo un bel letto che di giorno era un comodo divano, una bella scaffalatura per i peluche e anni dopo per accogliere i miei numerosissimi libri, una grande scrivania posizionata sotto alla finestra per studiare e fare i compiti in tranquillità. Il resto della casa era la LORO casa, quella dei miei genitori. Tutto era stato pensato da loro per loro. I segnali del mio passaggio erano minimi, forse giusto quando ero piccola potevano esserci giochi sparsi anche per il resto della casa. Ma coincidevano con il disordine. L’ordine era che tutto fosse poi riposizionato in camera mia.
    Credo proprio non ci fosse allora una concezione della casa se non adultocentrica.
    Gli spunti che già si intravedono numerosi in questo articolo mi incuriosiscono molto proprio perchè nella mia attuale casa ho invece cercato soluzioni accessibili anche a mia figlia. Manderò qualche foto!!

    • Maya Azzarà

      La questione dell’[b]ordine/disordine[/b] è senza dubbio uno dei motivi della reticenza a permettere ai bambini di condividere con gli adulti gli spazi domestici.

      L’ordine di una casa è qualcosa di pre-stabilito (generalmente da noi donne!): ogni cosa ha un suo posto e gli oggetti vanno riposti dove è stato deciso. I bambini, invece, disordinano.
      Ma qual’è effettivamente il disordine che creano i bambini?

      Lo suggerisce quello che ci hai raccontato: il disordine che produce il bambino è dato dallo spostarsi ed emigrare con le proprie cose, tentando di insediarsi, in ambienti che non siano la cameretta. Questa presenza itinerante, allora, provoca un non-ordine (a meno che il bambino sia fermo, seduto e a mani vuote!) proprio perché è stato deciso che il suo spazio è la cameretta e non altrove.
      E se allora nell’ordine pre-stabilito degli ambienti domestici si pensasse a prevedere spazi [b]anche [/b]per il bambino? A questo punto lui e le sue cose prenderebbero parte del contesto e non sarebbero più nel posto sbagliato, ma farebbero parte dell’ambiente conformandosi a quanto [b]pre-stabilito[/b].

      Grazie per il tuo commento!

      Maya

  4. NonnaMaria

    E’ strano come riusciamo a far vivere i nostri ragazzi in case che non sentono come “loro”. Quando chiedevo alle mie figlie di collaborare in casa mi rispondevano che avrebbero avuto cura di una casa quando ne avrebbero avuta una tutta loro. Ma come, mi chiedevo, ma questa non è anche loro? Evidentemente, pur senza volere, creiamo degli ambienti magari belli e con qualche pretesa di design ma non abbastanza a misura di bambini/ragazzi.
    Quindi un plauso a questa ricerca di spazi per loro e soprattutto mi piace molto l’esperienza della condivisione (anche solo di un cassetto) con mamma e/o papà.
    Io quando ero piccola non avevo una camera mia e quindi la creavo nella mia fantasia. Nella mia testa e nei miei giochi vivevo in case non so quanto grandi ma di sicuro dovevano avere una scala interna! E io mi chiamavo Ingrid!

    • Maya Azzarà

      Quando ho fatto leggere ai miei genitori il racconto (è stato il momento della rivincita!) ad un tratto mio padre, un tipo tutto antiquariato e suppellettili, è scoppiato in una fragorosa risata: era arrivato a leggere il punto delle pulizie domestiche!

      Pulire o riordinare -azioni già di per sé ben poco coinvolgenti- un ambiente di cui non possiamo usufruire in libertà è un gesto che non coinvolge l’aspetto emotivo, di responsabilizzazione e di interessamento, è un po’ come se lo facessimo per qualcun altro.
      Se invece nella casa ci sono spazi condivisi, [b]condiviso e reciproco [/b]sarà anche il senso di appartenenza, di riguardo e di attenzione e di considerazione verso le proprie cose e verso quelle degli altri.

      Il confronto coi genitori di una generazione precedente è per noi davvero molto prezioso.
      Le idee e la collettività nei decenni cambiano e si rinnovano, ma il frutto che raccogliamo nell’epoca attuale nasce dalla piantina di cui si presero cura i nostri genitori e dal seme che piantarono i nostri nonni: in noi c’è ancora parte di loro, delle [b]esperienze fatte insieme [/b]che si sovrappongono alle nostre visioni un po’ trasformatrici ed inedite.
      Conoscere quindi le considerazioni di chi ha organizzato la nostra casa quando eravamo bambine, è per noi di grande valore!

      Grazie per il tuo commento!

      Maya

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