Me lo immaginavo musicista. O almeno chitarrista in una banda rock. Sarei stata felice anche se avesse scelto l’armonica a bocca. Sarei arrivata, temo, persino a comprargli una batteria se me l’avesse chiesto, pur di coccolare la sua anima musicale.
“Ha orecchio, sa signora, un ottimo orecchio”.
Vero. E senso del ritmo. E a volte canta da solo “Bella senz’anima” con lo stesso timbro, voce roca e rabbia, dell’originale.
Mi ero sognata, per lui, un futuro in una scuola musicale. Al Conservatorio magari. Una volta ne avevamo anche parlato. E lui aveva detto:
“Ci andrò da solo con l’autobus, non sarò più un bambino a 11 anni.”
Io, fiera, me lo immaginavo con spartiti e solfeggio in spalle in un futuro fatto di note.
Invece, a quanto pare, dopo due anni di musica, due anni di apprendimento veloce e straordinario, passando dal do-do-do suonato con il pollice della mano destra, per arrivare a musiche a due mani come London bridge, Pretty bouquet e tante altre, del pianoforte non ne vuole più sapere niente.
“Voglio solo giocare a rugby”, mi ha detto molto chiaramente qualche mese fa. Abbiamo resistito. “Gli impegni si portano a termine”. Abbiamo superato anche il saggio.
E ora, che fare? La delusione è più mia che sua, lo confesso.
Allora mi domando:
Quanto diritto abbiamo di immaginarci il futuro dei nostri figli?
Quanto margine abbiamo per insistere e forzarli?
Quante possibilità abbiamo di mantenerli su una strada che non è quella che loro sembrano desiderare in quel momento?
Io di risposte ancora non ne ho e prima di prendere una decisione, qualunque sarà, lascerò passare l’estate. Una bella pausa ci vuole proprio.
Dentro di me resto convinta che un piccolo talento musicale ce l’abbia. Ma in fondo al cuore sono convinta che se dovrà sbocciare, l’amore tra lui e la musica, sboccerà.
Altrimenti ci saranno altri amori.
photo credit: Petits doigts au piano via photopin (license)
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Situazione identica per la mia piccola. Forse complicata dal fatto che uno dei temi verso cui mostra una certa resistenza è la seconda lingua, quella del padre. Non vuole usarla lei, e non vuole che la usi io. Forse prova una sorta di estraneazione invece che il brivido di entrare in una dimensione per reinventarsi e in cui aprirsi delle finestre e delle prospettive diverse. Che stia lavorando a edificare un’identità cui fare affidamento e senza cui non potrebbe spostarsi in altri mondi senza il rischio dello smarrimento? La questione poi delle attività extra (necessarie anche per colmare le nostre ore di lavoro e l’assenza di una solrella o di un fratello), abbiamo capito che lei deve rispondere a delle esigenze espressive che governino lo spazio circostante fisicamente. La sedentarietà, seppur creativa, se la ritaglia lei volontariamente quando ne ha bisogno. E qui, a demolire la freschezza della sperimentazione e della curiosità, il mio sconforto. Il cavallo, la musica, il circo… quante cose che non ho mai potuto fare e che le stiamo offrendo con fatica economica e acrobazie per gli spostamenti tra tata, nonni e paà. Il corso di musica era diventata una piazza per ballare o per spalmarsi a terra a disegnare; il cavallo è bello ma alla fine meglio pulirlo che montarlo, il circo sì… ma quanto sarebbe meglio il parco. Per il resto… La scrittura sarebbe solo una serie di grafemi indistinti e misteriosi che si susseguono senza sprigionare alcuna chiave di lettura a lei consona: non le interessa minimamente decifrare insegne o testi. Non ha alcuna passione per i numeri e non si applica minimamente per riprodurre musiche o intonare canzoni secondo un accordo che non sia casuale. Ma come diceva il famoso maestro Manzi: “Fa quel che può quel che non può non fa”. Purtoppo io lo trovo snervante. Così mi sono accorta che la mia proiezione su di lei esercita una pressione emotiva improduttiva e demoralizzante. Quindi la pausa me la prendo io prima dell’inizio del prossimo ciclo. L’anno prossimo si va a scuola… e vedremo. Speriamo che la resistenza diventi resilienza: che le difficoltà e le asperità contribuiscano a uno slancio imprevisto. Ma ecco che ci riprovo a costruirmi aspettative facili al crollo. Diciamo che quando vorrà decollerà. E noi saremo lì al chek-in.