Pensavo che un consulente pedagogico si allena a non dare risposte ma fornire domande.
Un bel rompiscatole, in effetti. Uno, o una, che non dice a papà e mamme “non fare questo, non fare quello”, ma introduce nuove domande sull’argomento che gli viene sottoposto. Oppure propone riflessioni che allargano l’orizzonte attorno alla domanda portata.
Ad un genitore che lo incontra e chiede: “Cosa devo fare con il mio bimbo che fa i capricci, che non ubbidisce, non ascolta?” – “Cosa faccio lo sgrido, e se non mi ascolta? Lo metto in castigo? In punizione?” probabilmente non riceverà una risposta nitida del tipo “Fai questo”.
Così immaginavo cosa potrei dire davanti a questa domanda e ho cominciato a cercare le risposte.
Cos’è un castigo, una sgridata, una punizione, o un time out? Ossia cosa significano le soluzioni che i genitori adottano per insegnare al proprio bimbo a fare una certa cosa, oppure a non farla?
Stando a wikipedia “la punizione, ovvero il castigo, è un metodo educativo ovvero di correzione molto utilizzato, sia in passato che attualmente, in ambito pedagogico, ovvero da parte di genitori, maestri e altre figure autorevoli, nei confronti dei bambini. Essa di norma consegue, sotto forma di sanzione, a un’azione scorretta, a imitazione della pena inflitta all’adulto che si renda responsabile di un illecito o di un reato.” E comprende sia le punizioni fisiche (sculacciate, digiuno, posizioni scomode), che quelle che prevedono l’isolamento in ambienti chiusi/bui o la privazione di oggetti o attività gradevoli.
Le sgridate sono i “rimproveri, severi, fatti ad alta voce”, come recita il dizionario, che implicano una serie di azioni verbali che precedono, anticipano, minacciano una punizione, oppure si limitano ad una azione metaforica, che sostituisce la punizione fisica.
Il time out infine ha due interpretazioni possibili: la prima lo assimila alle punizioni e si esplicita con “una misura correttiva o punizione per i bambini piccoli in cui sono separati dagli altri per un breve periodo”, oppure indica “il luogo, in particolare una sedia, utilizzata per tale provvedimento o di punizione”; la seconda propone “un periodo tranquillo usato soprattutto come una sanzione disciplinare per i bambini”.
Ma oltre la categorie di azioni sanzionatorie possibili che un genitore può intraprendere verso il proprio figlio, ci sono altre riflessioni che possono essere offerte, per sostenere il genitore a guardare la complessità del proprio ruolo:
• ogni modo di punire/sgridare il bimbo è determinato dal modello sociale e culturale prevalente, faccio solo un esempio: una volta le punizioni anche fisiche, usate in maniera massiccia, erano considerate un buon modo per educare, oggi sono decisamente meno ben viste; QUI trovate i suggerimenti della psicologa di MammeAcrobate, dott.ssa Irene Koulouris;
• ogni famiglia ha un suo stile educativo che può essere oggetto di ragionamento e discussione, e gli stessi genitori possono avere due stili educativi diversi, (uno più improntato a severità ed un più morbido), e lo stile educativo si riverbera anche nella famiglia allargata, e riflette le parole degli “esperti” che circondano;
• l’età del bambino diventa un ulteriore e importante spunto di riflessione e le azioni educative del genitore si modulano anche in base all’età del figlio;
• la fatica e lo stress, le condizioni di vita contingenti, fasi critiche o estemporanee o le urgenze possono modificare l’atteggiamento di un genitore, ma anche del bimbo;
• ogni bambino evoca in sé un incontro unico con il proprio genitore, e per i figli, spesso sembra che una regola universale non basti, se con il primo figlio ha funzionato il dialogo può darsi che il secondo evochi un modo di educare un pò diverso…
Queste sono alcune possibilità di riflessione aggiuntive che un genitore può darsi. Vale a dire che decidere aprioristicamente come ci si comporterà in caso di una marachella del proprio bimbo non è semplice, e magari ci si ritroverà a ricredersi, o a dubitare delle proprie azioni. Non è facile fare i genitori, perchè né le ricette, né i consigli sembrano mai adattarsi alla perfezione alla propria esperienza personale.
Provo ad esemplificare: un genitore, in genere molto pacato e poco uso a sgridate e urla, davanti ad un bimbo che attraversa, impetuosamente, una strada trafficata potrebbe usare un tono di voce più allertato e severo per fermare il bimbo; in modo rapido ed urgente, e non si disperderà in chiacchiere sui pericoli del traffico. Magari gli urlerà “FERMA!!!!”, senza preoccuparsi delle abitudini quotidiane e familiari. Fermare il bimbo sarà visto come il fatto più importante.
O un genitore d’abitudine più severo potrebbe mutare stile, rendendosi più “morbido” quando il bambino è ammalato o molto stanco, leggendo le condizioni di “contorno” che rendono il bimbo meno capace di rispettare una regola o ubbidire.
Insomma alle volte complicarsi la vita, con un pò di domande, moltiplica le nostre capacità di risposta, davanti al compito educativo che ci tocca come genitori o educatori.
Mi sembrerebbe ovvio e persino inutile dire che sappiamo tutti i necessari limiti alle azioni educative con i bambini, e che oggi sembra prevalere una cultura che esprime una riprovazione sociale verso le azioni educative più rigide (sgridate, castighi, punizioni fisiche e no), e in generale riconosciamo il rifiuto di quegli atteggiamenti che evocano la violenza, la crudeltà, l’assenza di affettività, la estrema rigidità educativa.
Ma è vero che fare i genitori non è mai semplice, quando il lavoro, le fatiche, le notti insonni, e le difficoltà oggettive si accumulano e i bambini mettono in scacco, quasi alla ricerca di uno stop, di un azione, di una risoluzione adulta.
E il genitore si trova davanti ad un “guaio” (disubbidienza, crisi di rabbia, rifiuto della cena, capriccio, stanchezza, sonno, paura, dispetto etc etc), al bimbo che lo ha prodotto, e alla propria possibilità di dare una risposta o una risoluzione al momento critico. Castigo, sgridata, laissez faire?
Ma anche tenuto conto delle riflessioni precedenti, il genitore dovrà finire per scegliere qualcosa o si sentirà obbligato a indicare (e a giustificare) la propria modalità con cui riprende i figli davanti ad un comportamento inadatto, con i nonni, la scuola, i conoscenti o con le altre mamme al parco giochi…
In generale, e scorrendo nei vari siti dedicati ai genitori, è possibile trovare spesso in modo chiaro e divulgativo i perchè, i pro o contro diretti ad un’educazione rigida e quelli mirati ad una educazione più morbida; così mi sembrava curioso riguardare alll’idea del time out, che sembra essere un pò meno conosciuta.
E tu sei stato così occupato ultimamente
Che non hai trovato il tempo
Per aprire la mente
E guardare il mondo girare delicatamente fuori dal tempo
Dimmi che non sto sognando
Ma siamo fuori dal tempo
Siamo fuori tempo
(Blur – Out of time)
Il time out o “fuori tempo” arriva del gergo sportivo ed in origine indica una pausa breve nel gioco o nel lavoro, una tregua, una breve interruzione di gioco su richiesta di una squadra sportiva o un funzionario per il riposo, la consultazione, o fare sostituzioni.
In educazione corrisponde alla fermata del tempo di una azione di un bimbo, in genere per fermare il bimbo, con un intento sanzionatorio, ma anche per consentire appunto uno stop.
E’ interessante tenere in considerazione ciò che insegna il gergo sportivo, con un atteggiamento più positivo, ci si ferma per:
cambiare qualcosa,
modificare il “gioco”,
dare/ricevere un consiglio,
scegliere/usare una tattica più funzionale.
Applicando questo modo di agire si vede che dare uno stop obbliga anche l’adulto a fermarsi, a bloccare il tempo senza reagire, senza imporre un castighi o scoppiare con una sgridata; semplicemente il genitore si ferma lui stesso, in vista della necessità di fermare il bambino.
Dare il time out: ferma il tempo, da’ tempo, permette di avere il tempo per pensare e scegliere una azione, per tirare un sospiro, per osservare il bambino fuori da una escalation di azioni e controazioni (capriccio/castigo – capriccio/sgridata – oppure un arrendersi genitoriale davanti ad un capriccio).
Come in una situazione di gioco, il genitore che immaginiamo potrebbe essere come l’allenatore che da consigli all’allenato, cambia la configurazione del gioco, aiuta il giocatore a stare meglio, a giocare meglio, cerca insieme a lui una migliore strategia che risponda alle esigenze contingenti, o alle capacità dell’altro, si ferma a prender fiato accanto a lui. Come in panchina. Offre una sosta, un momento di risposo nel flusso della giornata o del gioco, ad entrambe.
Sembra bello pensare, come dice il testo della canzone, che per i genitori e per i figli ci possa essere un fuori tempo per “per aprire la mente. E guardare il mondo girare delicatamente fuori dal tempo”.
di Monica Cristina Massola
8 Comments
Mi piaceva l’idea di aggiungere il link a questo post, scritto da una amica – collega – psicologa, che va nella medesima direzione che volevo sottolineare.
la strada dell’essere genitori non percorre grazie alla magia, alle soluzioni fatate o attraverso le bacchette magiche, ma attraverso un percorso di conoscenza, ricerca, “interrogazioni”, di incontri, pensieri, confronto e dialogo … e se c”è una magia essa non si “realizza scorciatoie ma attiva un percorso che poi dovrà esser percorso dall’altro”.
Farsi domande permette la strada e la scelta.
Ecco il link http://progettiguerrieri.wordpress.com/2011/05/05/la-bacchetta-magica-questa-sconosciuta/
Monica cara, care mammeacrobate, chiedo a voi, da madre di un semprepiùcapricciosoeimpertinente duenne se veramente la strategia del time out sia così vincente.
Mi spiego meglio. Sono una madre affettuosa, coccolona, giocherellona, punire mio figlio mi viene molto difficile, mio marito spesso mi accusa di essere troppo indulgente. La verità è che cerco di applicare un parametro di osservazione che tenga conto anche del punto di vista di mio figlio. Penso che ha 2 anni e quello che mi devo aspettare da lui non possa essere quello che mi aspetterei da un bambino più grande e da un adulto, però ci sono atteggiamenti che a mio avviso sono sbagliati, a volte pericolosi e spiegare dolcemente a un bambino così piccolo, il pericolo di divincolarsi dalle cinture di sicurezza del seggiolino, de lanciare oggetti pesanti ad altezza d’uomo, o giocare a fare il cane mordendo la mamma è veramente difficile. Allora sono approdata al “castigo”, dopo il time out. Prima dico che non si fa, poi lo asserisco a voce alta e infine, se non ottengo (cosa che spesso accade) passo alla costrizione. Lo prendo e lo siedo sul seggiolone senza possibilità evasione. La cosa lo fa impermalosire e offendere a dismisura e solo dopo questa misura “estrema”, allora si calma. Voglio dire. Ok l’affetto, ma a volte bisogna sanzionare dei comportamenti non solo inadeguati ma pericolosi. No?
Ciao Francy.
Infatti, concordo con la tua conclusione. Educare un bimbo significa anche fargli incontrare il mondo delle cose che non si possono fare.
Ma premetto una cosa il time out non vuole essere una scelta assoluta, ma una possibilità che in genere non viene proposta.
Nell’educazione dei bambini, proprio perchè ogni bimbo è diverso, ogni mamma o papà è diverso non si può immaginare una soluzione valida per tutti, del tipo: va bene solo la severità, va bene solo la disponibilità. E ovviamente anche le circostanze cambiano il modo di agire, ci sono condizioni che obbligano ad atteggiamenti più morbidi, e altre ad atteggiamenti più rigidi. Il time-out introduce il tempo del fermarsi a pensare (come adulti) e fermarsi nell’azione (del bimbo), e la possibilità di ripartire, in modo diverso.
Quindi se il mio bambino sta per fare o sta già facendo una cosa molto pericolosa, agisco velocemente e lo fermo immediatamente. Non sto a dialogare e non mi prendo il tempo per pensare, ma colgo l’urgenza ed evito che il bimbo si faccia male.
Insomma come dici tu occorre intervenire diversamente, e a me sembra che tu già metta in conto i vari elementi che occorrono per crescere un bimbo:
la sua sicurezza,
la sua età (ha solo due anni e non 7/8),
le istanze paterne di maggiore rigore,
il bisogno che lui impari a non fare alcune cose (pericolose o inadatte),
la tua modalità di accudirlo in modo coccolone e affettuoso.
A quanto illustri tu, dosando momenti di gioco, a momenti in cui scopre che alcune cose non si possono fare. E’ il preludio al mondo delle regole, che tu gli insegni.
E intanto il tuo bimbo sembra anche rassicurato dalla fermezza che passi quando eviti che si faccia male o faccia che, che reputi (o reputate come genitori) inadatte.
Che ne dici?
Ciao Monica
Grazie Monica, mi rassicuri. Ogni tanto ho in mente le scene di “SOS tata” e mi chiedo se non rischio di tirar su un “teppista” pure io.
Faccio del mio meglio. Ho anche molto tempo da dedicargli fortunatamente. Ma non sempre è facile. E’ in un’età dove vuole affermarsi, è diventato “EDOcentrico” 🙂
Francy
SOS tata farebbe preoccupare anche la madre più serena, attenta e sicura del mondo!! Le Tate della TV sembrano non sbagliare mai mentre genitori sono insicuri e pasticcioni.
Spesso – invece – anche chi educa per lavoro si pone dubbi e domande, simili a quelle dei genitori; ma i dubbi hanno sempre una certa importanza perché ci obbligano a pensare a quello che stiamo facendo, e scegliere con più lucidità. A cogliere con attenzione anche la fase “EDUcentrica” dei bimbi e orientarla meglio, tra indipendenza e sicurezza adatte a tre anni. Se guardi SOS tata spesso le ricette sono simili un pò per tutti. Ciao 🙂
Mi correggo … ai due anni del tuo bimbo (e non tre come ho scritto).
Ciao
Tata Lucia sembra davvero avercela, la bacchetta magica.
Tata Lucia sembra davvero avercela, la bacchetta magica.