Suicidio di una ragazzina nella notte tra il 4 e il 5 gennaio a Novara. Carolina Picchio, 14 anni, si sarebbe tolta la vita a causa delle continue molestie subite da un gruppo di bulli.

Questa è la notizia che mi ha accolto appena rientrata a casa stasera, tv accesa, sintonizzata sul telegiornale. Una giovanissima vita finita in un attimo. Proprio come quella di Amanda Todd lo scorso ottobre e di Davide – meglio noto dai media come il ragazzo dai pantaloni rosa – a novembre, entrambi 15 anni.

Io con i ragazzi ci sto tutti i giorni e li guardo. Vedo l’allegria, l’entusiasmo, ma vedo anche la fragilità, l’insicurezza. Carolina poteva essere una dei “miei” ragazzi e oggi appena ho sentito la notizia ho provato una forte rabbia, così forte che mi sono ritrovata a inveire ad alta voce, da sola. Contro chi? Contro me, contro la società, contro chi tende a demonizzare il web, i social media come causa principale anche di queste tragedie, quando invece bisognerebbe andare un po’ oltre.

Non metto in dubbio le responsabilità di internet e il suo effetto amplificatore, ma ciò non toglie che i ricatti, le vessazioni, le prese in giro, sono sempre esistiti; non lo si chiamava bullismo, ma ci sono sempre stati, eccome.

Al di là di internet, quello che penso è che se una ragazza arriva a uccidersi perché non ce la fa più a sopportare quei commenti, quegli sguardi e quei sorrisini ironici che bruciano peggio di uno schiaffo, forse la colpa non è solo di alcuni di “bulli” che stupidamente, per farsi belli agli occhi dei coetanei, per sentirsi più fighi, arrivano a rendere un inferno la vita di una coetanea, una di loro.

La colpa, forse, è in parte anche della restante parte di “quei loro”, quelli che ridono di fronte alle sopraffazioni, alle offese, alle violenze ma anche quelli che stanno lì senza fare niente, non pensando che al posto di Amanda, di Davide, di Carolina ci potrebbero essere loro. Il divertimento per i bulli sta proprio nell’avere dei seguaci, un pubblico da intrattenere e divertire. Quanto può essere forte un gruppo di prepotenti di fronte a un’intera classe, un’intera scuola che non ci sta a questo gioco al massacro? Che prende posizione, che si ribella…

La colpa è anche un po’ la nostra, di noi adulti, che dovremmo impegnarci di più nel trasmettere ai nostri figli il senso di comunanza, di solidarietà. A insegnargli a non accettare passivamente quello che accade loro intorno solo perché non li tocca direttamente. A fargli capire l’importanza della rete, che
“l’unione fa la forza” non è solo un proverbio. Essere forti vuol dire opporsi. I bulli vanno isolati, dei bulli non bisogna avere paura.

Insegnare che essere fighi vuol dire sapersi indignare, che leader di un gruppo non si diventa per la paura che si riesce a incutere nei più fragili, ma per quello che si fa per gli altri. E se la scuola, la famiglia andranno in questa direzione per radicare questi principi nel profondo, non importa quanto difficile sia, forse non sentiremo più parlare di casi come questi.

photo credit: iStock.com/shironosov

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Acrobata per vocazione, una laurea in Lingue e Comunicazione, da oltre 10 anni mi divido tra le mie due grandi passioni: educazione e comunicazione, convinta che le due cose insieme possano fare la differenza. Da sempre in prima linea accanto ai bambini, agli adolescenti, alle mamme e ai papà, a scuola e in famiglia, ho lavorato e lavoro per diverse realtà del terzo settore occupandomi di diritti dei minori, cittadinanza attiva, intercultura, disabilità e fragilità sociale con l’obiettivo di contribuire a diffondere una cultura dell’infanzia e dell’adolescenza. Il mio sogno? Mettere al servizio dei genitori le mie competenze e professionalità, per supportarli nel loro ruolo educativo.

2 Comments

  1. UNA CLASSE DI PICCOLI GRANDI UOMINI
    Sono entrato nella classe con il cuore in tumulto, accade ogni volta che mi invitano a parlare agli studenti. Non si tratta di paura derivante dal carico eccessivo di ansia e stress, piuttosto dalla grande responsabilità che mi sale addosso nel rivolgermi a tanti giovani, e per l’onore di stare nella grande casa dell’educazione.
    Una gioia mista a tristezza, perché sono consapevole del rimpianto, di quanto si possa perdere con l’abbandono scolastico, nell’interrompere gli studi, attraverso la trasgressione irresponsabile.
    Tanti ragazzi seduti sulle sedie, sui banchi, accovacciati per terra, una sequela infinita di domani, domani, domani con gli occhi spalancati e un po’ lucidi, ascoltano lo scorrere di un pezzo di vita che non c’è più, inchiodati a un racconto che non è affascinante nè bello, seguendo con lo sguardo qualcosa e qualcuno che non c’è più.
    Si tratta certamente di una brutta storia che però va affrontata, con cui bisogna fare i conti per non rimanerne abbagliati, affascinati dai falsi miti, dagli eroi senza anima, dai protagonisti che non saranno mai dei vincenti, ma semplicemente degli uomini sconfitti.
    I ragazzi non fanno più rumore “dentro” la classe, non sgomitano, non ammiccano, restano aggrappati allo spazio cui sono “ristretti”, sbattono sulla realtà che non è più virtuale, ora, infatti, non è più gioco della play station, non è possibile ritornare indietro, resettare, fare finta di niente, cancellando ogni cosa con una rullata nel display del telefonino.
    Non c’è possibilità di farla franca con le parole, con i significati che non intendono accettare compromessi, tanto meno divenire vocaboli posseduti come piccole ipotesi di una libertà prostituta.
    A tredici anni non è un caso che la libertà sia un comodo rifugio per tentare di fare tutto quello che vogliamo, “tutto”, e in quel tutto c’è l’intrusione dello scarpone chiodato nella libertà altrui, c’è il nostro sangue mischiato sempre più spesso con quello degli altri, dello sfigato, del bullo, delle vittime di turno, degli innocenti.
    Una classe di piccoli grandi uomini e donne, dove ognuno è stato, dove ciascuno ha dato, ha preso, ha trovato la propria identità, nonostante in classe ci si creda piloti professionisti senza patente, dove la fretta è cattiva consigliera, dove il tempo non è mai inteso un buon amico, un buon compagno di viaggio.
    Eppure il tempo è un grande terapeuta, un grande pedagogo, battistrada scambiato per Dio, non viene meno alla capacità di vedere, di ascoltare, di mettersi di traverso, non è una comoda convenzione che ritornerà buona a percorso ultimato.
    Il tempo è compagno di viaggio leale che ritornerà fino all’ultima moneta che gli avrai dato, è amico sincero che ti riconsegnerà intatto fino all’ultimo cent, senza perdite di memoria né di inganni.
    Mentre l’incontro in questo istituto giunge al termine, gli occhi di quella ragazzina finalmente sorridono, danzano sulle risposte che ha dato a me ed ai suoi compagni, sulle domande poste con garbo ed educazione, con la voglia pazza di gridare: ci sono anch’io, esisto anch’io, eccomi qui.
    I ruoli si sono ribaltati, gli sfigati hanno insegnato molto ai sempre pronti, i bulli-imperatori sono caduti, i fragili senza parola hanno fatto un bel passo avanti, ricollocando al giusto posto il valore insopprimibile della libertà “che è quando rispetto l’altro”.

    Vincenzo Andraous
    CdG

    Marzo 2013

    • Elisa Capuano

      [quote name=”vincenzo andraous”]UNA CLASSE DI PICCOLI GRANDI UOMINI
      Tanti ragazzi seduti sulle sedie, sui banchi, accovacciati per terra, una sequela infinita di domani, domani, domani con gli occhi spalancati e un po’ lucidi, ascoltano lo scorrere di un pezzo di vita che non c’è più, inchiodati a un racconto che non è affascinante nè bello, seguendo con lo sguardo qualcosa e qualcuno che non c’è più.
      Si tratta certamente di una brutta storia che però va affrontata, con cui bisogna fare i conti per non rimanerne abbagliati, affascinati dai falsi miti, dagli eroi senza anima, dai protagonisti che non saranno mai dei vincenti, ma semplicemente degli uomini sconfitti.

      CdG

      Marzo 2013[/quote]

      Grazie Vincenzo per il suo commento, credo che il lavoro che lei svolge nelle scuole sia estremamente importante…è verissimo che i ragazzi subiscono la fascinazione dei falsi miti, di storie “dannate” che rischiano di essere pericolose…troppo pericolose e non le nego che questo mi fa paura. Si ricorda qualche anno fa, quando è andata in onda per la prima volta la fiction su Totò Riina? Beh, io li sentivo i commenti dei ragazzi e non le dico la fatica per mettergli in testa che non è seguendo la strada della violenza e della sopraffazione che si diventa migliori degli altri…anzi. Vorrei davvero che capissero che il rispetto non lo si ottiene con la paura, ma con la stima e che “onore” è una parola vuota, di cui ci si riempe la bocca per giustificare gesti inaccettabili.
      Sentirsi sbattere in faccia la verità di un’esistenza come quella che lei racconta, sicuramente aiuta i ragazzi a non farsi abbagliare da una vita che non è quella che credono, ma che come lei sottolinea è una vita sconfitta…