Qualche giorno fa sul Corriere è stato pubblicato un interessante articolo dal titolo Le sbronze (sottovalutate) degli adolescenti, un post che fotografa il rapporto esistente tra alcol e adolescenti in Italia, purtroppo per nulla confortante.
Infatti, come spiegato, secondo le indagini dell’Istat e di Espad, progetto europeo di ricerca sul consumo di alcool e droghe tra gli studenti, i ragazzi Italiani non solo non sarebbero estranei all’alcool, ma il consumo sarebbe sempre più precoce, con la prima “sbronza” già tra gli 11 e i 12 anni e più di 2 ragazzi su 100 nella fascia 11-24 anni dichiara di essersi ubriacato almeno una volta.
Da non sottovalutare poi, sostiene l’autore, alcune pratiche estremamente pericolose, sempre legate all’alcool, come il binge drinking, ossia il bere grandi quantità di alcool in un breve lasso di tempo o la Nek Nomination, un gioco in rete di cui i media hanno ampiamente parlato nel corso degli scorsi mesi.
Ma perché gli adolescenti bevono e qual è il nostro ruolo come genitori, come educatori e come società?
Per chiarirci le idee abbiamo chiesto alla pedagogista Barbara Laura Alaimo, di aiutarci a capire meglio cosa spinge i ragazzi a farlo e cosa possiamo fare noi.
Per prima cosa, per quanto riguarda il consumo di alcol, è necessario distinguere un “consumo nordico”, rappresentato dal consumare in compagnia grosse quantità di alcol, da un “consumo mediterraneo”: si beve nelle feste e nei pranzi familiari e il primo avvicinamento all’alcol da parte dei bambini spesso avviene in famiglia in occasione di un brindisi.
Si capisce quindi che, anche culturalmente, il consumo di alcol è parte del mondo degli adulti, legato a momenti di festa e di convivialità. La trasgressione per un adolescente non può essere il consumo, ma l’eccesso.
Il fenomeno dell’abuso di alcol in età adolescenziale, oltre alle ricerche sopracitate, è rappresentato in modo eloquente anche da un altro dato, che emerge da un’indagine del 2012 della Società Italiana di Medicina dell’Adolescenza – Osservatorio Permanente sui Giovani e l’Alcol – e che ci dice che chi si è ubriacato non l’ha fatto per caso, ma ha ricercato l’esperienza.
Ma perché? Le motivazioni che emergono dalle risposte ai questionari sono ad esempio perché si vuole emulare gli amici o per il desiderio di vincere la noia, dimenticare i problemi o “divertirsi in gruppo” .
Prendiamo ad esempio la Nek Nomination. Per chi non lo conoscesse, un “social game”, diffuso qualche tempo fa in rete tra adolescenti. Si tratta di una sorta di sfida, per cui chi viene nominato, deve bere la maggior quantità di alcol possibile. Ovviamente il tutto viene filmato e al termine si nomina un’altra persona. Ad ogni turno le modalità diventano sempre più estreme così come le quantità di alcol da ingerire: chi non accetterà la sfida verrà preso in giro, deriso, umiliato.
La posta in gioco in realtà è la vita, perché questo “drinking game” ha fatto varie vittime.
La domanda che spesso sento fare dagli adulti è “Nek Nomination allora è un problema legato all’alcol o ai social?”. In definitiva ci si chiede “Cosa dobbiamo proibire?”.
Non esistono risposte semplici o ricette.
Nek Nomination, come altre manifestazioni meno eclatanti e per questo più inascoltate, forse è legato al bisogno di essere visti, guardati, che ogni adolescente porta con sé, nell’avventura della ricerca della propria identità e nel bisogno di uno sguardo che lo ri-conosca.
I social amplificano gli effetti devastanti di questa ricerca di visibilità a ogni costo, anche a costo della vita, ma rendono evidente al mondo adulto il bisogno e la domanda degli adolescenti e la necessità di dare delle risposte.
Spesso liquidiamo i ragazzi come la generazione del tutto e subito, incapaci di tollerare frustrazioni, annoiati di qualsiasi cosa.
Ma noi, come adulti, come genitori e insegnanti, sappiamo proteggere i nostri adolescenti e siamo consapevoli che hanno ancora bisogno di un limite esterno? Crediamo che dare dei limiti e regole di sicurezza non ci renderà estremamente popolari, ma ci identificherà come un punto di riferimento?
E poi, sappiamo sostenerli nel loro crescere per tentativi ed errori, ascoltando e accogliendo? Siamo disposti a prendere seriamente i nuovi bisogni e le risorse di un figlio che cresce?
E quando le manifestazioni di disagio non sono più la ricerca transitoria della risposta a “chi sono io?” “cosa diventerò?”, ma diventano le uniche risposte dell’adolescente, sappiamo chiedere aiuto?
Come comunità invece siamo capaci di chiederci se in questa età di passaggio i nostri figli (perché sono figli di tutti) hanno spazi di ascolto e di realizzazione di sé, di protagonismo sociale e di espressione si sé?
Hanno luoghi in cui coltivare la dimensione desiderante e dove la loro identità sia ri-conosciuta? Hanno spazi dove essere visibili per le proprie risorse e luoghi dove la sfida sia tirar fuori le proprie originali potenzialità e vederle valorizzate?
Voi cosa ne dite?
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