Quante cose avremmo voluto chiedere a questa grande donna, grande mamma, grande punto!
Una persona che ha avuto la capacità di incanalare un’esperienza pesantissima in qualcosa di incredibilmente valido e positivo, un aiuto importante per chi si trova nella sua stessa situazione e forse non solo.
Il Regno di Op ci riguarda tutti. Si perché come dice lei stessa “Il cancro è una malattia della famiglia”, una guerra da combattere tutti insieme.
Avremmo voluto chiedere come cha fatto a controllare la rabbia che provi quando i medici “entrano nella tua stanza, una sera di fine maggio, e ti dicono che tuo figlio di due mesi e dieci giorni, probabilmente, molto probabilmente, quasi certamente ha il cancro. E tu vorresti spaccare il mondo in due e poi in duemila pezzi. Vorresti incendiare tutte le porte, gli ascensori, i bar, i parcheggi. Vorresti vedere andare a pezzi tutte le famiglie con figli che bevono serenamente il loro cappuccino e il loro cornetto davanti al giornale, la mattina. E un po’ d’odio lo provi, per ogni cosa. Stupidamente, indistintamente”.
Avremmo voluto chiedere perché quei medici non li odi, ma poi abbiamo letto che “Ci sono stati sempre. Ci sono ogni mattina della loro vita, per tuo figlio, per i figli degli altri. Passano con il carrello, circondati da studenti, seguiti da due infermiere, sepolti dalle cartelline cliniche con sopra i numeri dei letti. Venti letti, venti bambini. Venti tumori diversi, venti vite appese a un filo di nylon sottile come un capello.”
Comunque, oltre a seguirla da tanto tempo sul suo blog e aver letto il suo libro, le abbiamo fatto qualche domanda…lei ha risposto, ancora una volta con grande disponibilità.
Ecco qui.
Ciao Paola, con il tuo blog hai mosso un gran numero di persone. L’impressione è che tu non abbia voluto solo raccontare la tua storia ma attirare l’attenzione su alcuni punti: la malattia dei bambini, lo smarrimento dei genitori, l’elevata professionalità di medici e personale infermieristico e il fatto che dal regno di op si esca.
Perché hai deciso di aprire il blog?
È per me importante cogliere questa natura corale, collettiva del mio sguardo nel blog.
Non ho mai pensato, con il blog, di raccontare la storia di una mamma coraggiosa e di suo figlio malato.
L’idea è stata subito un’altra: raccontare un mondo, il mondo che noi abbiamo contattato negli ultimi dodici mesi della nostra vita e che è il mondo segreto in cui ogni anno, senza scelta e senza colpa, traslocano 1500 famiglie all’anno, a seguito di una diagnosi di tumore infantile di un figlio.
La natura autobiografica del mio racconto è innegabile, ma c’è soprattutto la voglia di dare spazio, luce e dignità alle altre famiglie e a tutti i lavoratori – medici, infermieri, psicologi, assistenti sociali, portantini – che scelgono l’Oncologia pediatrica come mestiere. Un mestiere coraggiosissimo e molto duro, perché pieno di successi, certo, ma anche di sconfitte del tutto inspiegabili e inaccettabili.
Ora con il libro e le tue presentazioni (che ci auguriamo toccheranno anche il nord) interesserai ancora più persone. Perchè il libro?
Il libro è un passo in avanti. Passare dal web alla carta significa per me passare anche dalla sedia e dal computer di casa all’incontro fisico e alla relazione con altre persone nelle piazze, nelle associazioni, negli ospedali per provare a parlare apertamente dei tumori infantili e di tutti i bisogni che riguardano le famiglie di bambini oncologici, la cui assistenza è totalmente delegata alle associazioni, alle donazioni dei privati, al volontariato e che invece dovrebbero essere prese in carico dalla politica e dalle istituzioni, in modo sempre maggiore.
Non è semplice dopo le fatiche dell’ultimo anno decidere di impegnarmi in questo passaggio, ma è uno sforzo liberatorio, che vuole essere una provocazione, una sfida costruttiva al pregiudizio e all’esclusione sociale.
La malattia porta spesso con sé una strana vergogna. E quando una malattia come il cancro incrocia l’infanzia, che dovrebbe essere un terreno obbligatoriamente incontaminato dai problemi, la vergogna si trasforma in vero e proprio tabù sociale.
Dei bambini malati è vietato parlare. Per pudore, è vero, ma anche perché fanno paura.
Succede anche a noi famiglie di renderci protagoniste di una strana autocensura sulla malattia dei nostri figli. Non la nominiamo, a lavoro, ad esempio.
Non la raccontiamo. Io provo con semplicità a svelare, nel mio blog, quello che succede alla nostra vita dopo la malattia. Come cambia, come tutto si trasforma. Ma anche come, pur nel profondo e doloroso cambiamento, si recuperino anche spazi di normalità.
E anche questi bambini speciali restano in fondo bambini come tutti gli altri.
La gran parte di loro oggi guarisce e ritorna a scuola, al catechismo, agli scout e ha bisogno di ritrovare attorno a sé comprensione, accoglienza e serenità e non spavento.
Provare a parlare di Op senza paura, nei dettagli anche quotidiani di quello che succede in un reparto di Oncologia pediatrica (flebo ma anche pop corn, trasfusioni ma anche partite alla play station e al Monopoli, isolamento ma anche incontri straordinari con altre famiglie e medici e infermieri generosi e tenaci) mi sembra un modo per uscire, insieme ai nostri figli, dalla “riserva indiana” in cui invece finisce sempre tutto ciò che è diverso dalla normalità raccontata dalla televisione e dalla pubblicità.
Cosa può fare secondo te l’opinione pubblica per migliorare l’ospedalizzazione dei bambini?
Molte persone sono virtuosamente impegnate in percorsi di volontariato sociale e a loro va tutta la mia stima.
Ma c’è un volontariato permanente, civico, in cui noi tutti ci dobbiamo sentire arruolati 24 ore al giorno.
Mi riferisco all’obbligo morale di tenere alta l’attenzione su tutto quello che è escluso dal dibattito pubblico perché considerato marginale e minoritario.
I tumori infantili sono malattie classificate come “rare”. Ed è per questo che se ne parla poco e non si conoscono iniziative politiche nazionali davvero incisive a sostegno delle famiglie di bambini oncologici.
Molto potrebbe fare la politica per quel che riguarda gli alloggi gratuiti alle famiglie che vengono a curarsi dal sud al nord, ad esempio, sostenendo spese di viaggio, lasciando o trascurando il lavoro, perdendo ogni certezza psicologica ma anche economica.
E invece l’accoglienza alle famiglie è delegata alla buona volontà delle associazioni, sostenute dalla generosità dei privati, una generosità che è necessariamente in calo per via della crisi economica.
Anche dal punto di vista del reinserimento scolastico siamo a zero. I bambini oncologici che non sono in età scolare, come mio figlio, non possono andare al nido per via dell’immunodeficienza e dei periodi di ospedalizzazione forzata legati alle terapie e l’onere della loro gestione è altissimo per le famiglie.
Ma anche lì, ad oggi, l’unica e insufficiente risposta è il volontariato.
Anche la continuità scolastica dei bambini più grandi non sempre è garantita adeguatamente e invece perfezionare le iniziative di “scuola in ospedale” e assistenza scolastica domiciliare per i ragazzi oncologici è un punto fondamentale per mantenere il contatto con la società. Spero che questo libro sia uno strumento per animare un dibattito pubblico in questa direzione.
Siamo rimaste colpite dal capitolo scritto sui padri. Abbiamo percepito chiaramente che l’unione di coppia ha giocato un ruolo importante per uscire da questa situazione. Purtroppo non sempre è così. Secondo te queste prove mettono a dura prova l’amore o lo rafforzano?
C’è un film francese, nelle sale italiane quest’estate, che parla di questo aspetto in modo davvero incisivo.
Si chiama “La guerra è dichiarata”, della regista francese Valérie Donzelli, e racconta proprio quello che succede a una coppia innamorata quando irrompe nella propria vita, familiare e sentimentale, la malattia di un figlio.
Il film racconta benissimo una cosa che io ho imparato in questi mesi: il cancro è una malattia della famiglia. E questo credo non riguardi solo i tumori pediatrici. È la famiglia a essere travolta da questa malattia e quando riguarda un figlio tenere salda la coppia è un esercizio secondo me fondamentale per non crollare e per resistere alla fatica e al dolore.
Oggi 7 tumori infantili su 10 guariscono, ma le cure possono durare molti mesi, a volte anni. Si conduce una vita sfinente, di trincea, perennemente accampati, provati fisicamente oltre che psicologicamente.
Si perde intimità, si perdono energie e si perde totalmente anche una risorsa semplice ma preziosa, il tempo libero, da dedicare a saldare e coltivare il proprio rapporto di coppia. Eppure io credo che le famiglie ne escano rafforzate, senza dubbio, per quanto provate.
Per me, attraversare questa esperienza senza il padre di mio figlio sarebbe stato semplicemente impossibile. Lui c’è stato tanto quanto me.
Ci siamo stati insieme, organizzandoci, facendo i turni e cercando di avere cura gli uni degli altri, senza farci dividere dalla stanchezza e dalla rabbia, neanche un momento.
E quello che ho visto in generale – e che per questo ho raccontato – è stata una presenza massiccia dei padri e dei nonni a fianco dei bambini. Le madri non sono le uniche depositarie né della felicità né del dolore dei propri figli. E quando sono sole è più difficile.
Ma io a Op ho visto anche molti genitori separati condividere tutto il percorso di malattia dei figli, facendo i turni con disciplina e amore. Non è vero che la malattia tira fuori il peggio delle persone.
Nel regno di Op sei così a contatto con la materia prima della vita che restituisci il giusto posto a tutte le cose e ristrutturi la gerarchia delle tue priorità. Il nervosismo, la frustrazione, la stanchezza non prendono mai il sopravvento sulla consapevolezza che restare uniti, in alcuni momenti della vita, non solo è giusto ma è anche l’unico modo per non franare.
Pensi di far leggere il libro a tuo figlio?
Non so bene se glielo leggerò ad alta voce o se lo nasconderò in libreria. Quel che è certo è che gli racconterò del Regno di Op.
Gli racconterò che è possibile essere bambini in molti modi e che a lui ne è capitato uno molto speciale.
Gli racconterò che la vita sa essere incredibile e che la sua lo è stata dall’inizio.
E gli racconterò che lui mi ha insegnato ad avere meno paura degli ospedali, dei Regni di Op e di tutto quello che di incredibile e “lontano dal copione” può succedere.
Accettare quello che la vita ci mette davanti, anche di estremamente doloroso e tremendamente imprevisto, senza manie di persecuzione e senza lasciarsi corteggiare dalla disperazione e dall’autolesionismo.
Provando a resistere, sempre.
A setacciare quello che nell’inferno non è inferno, come scriveva Calvino nelle Città invisibili, e dargli spazio.
Proteggere le cose buone e l’amore per la vita e per le persone anche quando la rabbia farebbe cenere di ogni cosa.
Grazie Paola. Di tutto.
Illustrazione di Vlad Gerasimov www.vladstudio.com
Foto Ufficio Stampa Ospedale Gemelli Roma
2 Comments
D’accordo!!
Più leggo questa intervista (ed il libro) e più sono convinta che si tratti di una gran donna! Dobbiamo esser grati a persone simili perché ci sanno insegnare molte cose