Mamma e Papà: due tra le prime parole che i bambini imparano, due termini che non richiedono grandi spiegazioni poiché associate a delle figure che ci accompagnano da sempre, che fanno parte della nostra vita e che hanno il bellissimo – ma anche faticoso – compito di guidarci attraverso le tappe della nostra crescita.
Questo è quello che accade, o che dovrebbe accadere, perché sappiamo che la realtà ci mostra anche situazioni diverse, in cui il viaggio verso l’età adulta non è fatto con chi ci ha messo il mondo.
Fortunatamente però di fronte a storie di figli privati del diritto alla famiglia, ce ne sono molte altre che parlano di nuovi incontri, di legami non dettati dal sangue ma di qualcosa altrettanto forte, l’amore. Si tratta delle tante storie che ci parlano di un altro modo per diventare genitori: l’adozione.
Sono tante le coppie che decidono di adottare, una scelta d’amore immenso che non è però esente da difficoltà, che richiede lunghe e approfondite riflessioni, per essere pienamente consci di cosa vuol dire intraprendere un percorso di questo tipo.
Infatti, se un requisito fondamentale della scelta di diventare genitore è una buona dose di consapevolezza lo è ancora di più per i genitori adottivi, poiché in molti casi il bimbo che accoglieranno, porta con sé un pezzo di vita già scritta, non condivisa con loro con tutto ciò che questo comporta.
Come affrontare questo aspetto? Come rispondere alle tante domande che possono sorgere? Domande delicate, che richiedono risposte attente che aiutino i bambini a capire chi sono, da dove vengono, attraverso un punto di vista che sia a loro misura.
Un valido strumento per gestire situazioni che ci fanno sentire in difficoltà, per cui a volte fatichiamo a trovare le parole è rappresentato dalle fiabe, preziosi alleati che ci aiutano a parlare di situazioni in cui magari ci riconosciamo, ma mantenendo una certa distanza.
Ed è proprio di una fiaba che vi voglio parlare oggi, un racconto sapientemente costruito per parlare di adozione utilizzando il linguaggio dei bambini: la storia di un bambino speciale, scritta per altri bimbi altrettanto speciali…
“Bibo è un bambino che abita nel Paese dei Bambini Soli.
Nel Paese dei Grandi Soli ci sono due adulti soli.
Un giorno Bibo e questi due grandi si cercano, si desiderano.
Infine s’incontrano. E nessuno di loro è più solo.
Insieme viaggiano attraverso paesi bellissimi, come il Paese delle Coccole e il Paese dei Giochi Giocati, e imparano giochi e coccole, e come si fa a stare bene insieme. Poi, nel Paese degli Specchi, Bibo si accorge di una cosa strana: lui è blu, e i suoi grandi sono arancioni.
E qui cominciano i problemi, e le domande…”
Bibo nel Paese degli Specchi, edito da CARTHUSIA, è un libro che mi ha subito colpito per la delicatezza con cui sa affrontare un tema importante come quello dell’adozione internazionale.
Con la supervisione scientifica del CIAI – Centro Italiano Aiuti all’Infanzia – e della Provincia di Milano, grazie al contributo di un equipe di esperti che hanno saputo fondere competenze molto diverse, Beatrice Masini e Patrizia La Porta hanno dato vita ad una storia sulla e per la famiglia da leggere e rileggere insieme, dove le parole si uniscono alle splendide illustrazioni che aiutano nella comprensione del testo.
Un libro bellissimo per parlare di accoglienza, di mondi che sembrano lontani tra loro ma all’interno dei quali possiamo trovare legami potenti, con porte che li uniscono. Un libro che affronta il tema delle differenze, delle paure, ma anche della scoperta, di un nuovo percorso da fare insieme senza però cancellare da dove veniamo. Il passato, infatti, è una componente fondamentale, qualcosa da preservare che farà sempre parte di noi, da accogliere con tutte le emozioni che porta con sé… e questo libro ce ne dà l’ulteriore conferma.
8 Comments
Bello questo libro che aiuta in situazioni a volte difficili. Ma come fare quando il bambino è di nazionalità italiana o quanto meno non così “diverso” dai suoi genitori? Non è immediato il fatto di essere di colore o razza diversa! Vedo che a volte genitori adottivi rimandano il momento chiamamolo della verità proprio perchè non sanno come affrontarlo. E che dire a quei genitori sempre adottivi che invece preferiscono non rivelare al figlio il fatto di non essere i suoi genitori naturali? Grazie
nonna maria forse un tempo poteva essere così ma ti garantisco che già da molti anni ai genitori adottivi (fin da quando sono solo aspiranti tali) vengono fatti corsi e approfondimenti e quant’altro perché siano preparati al meglio per raccontare la sua storia al proprio figlio adottivo.
di genitori che hanno tenuto nascosta la verità al proprio figlio non ne conosco neanche uno.
bisogna anche pensare che da qualche anno l’età media dei bimbi al momento dell’adozione si è parecchio alzata!
questo libro di cui si parla qui è uno dei più famosi e dei più “citati” ai vari corsi come esempio di racconto adatto anche ai più piccoli per affrontare il tema dell’abbandono.
Mi fa piacere quello che dici, Agnese, perchè non ho mai trovato giusto nascondere la realtà della propria nascita ad un figlio adottivo. Ho vissuto da vicino questa realtà tramite una famiglia amica e ho visto con quanto amore è stato affrontato il tema della nascita da un’altra mamma.
Per quanto riguarda la questione del rivelare o meno la verità anche io sono d’accordo con voi che non farlo non solo non è la decisione giusta ma è anche rischiosa; venirne a conoscenza successivamente, magari in maniera improvvisa – figuriamoci poi se avviene da terzi – può avere conseguenze molto dolorose per i bambini o i ragazzi. Uno dei rischi è che questa omissione possa essere vissuta come un vero e proprio tradimento, che può incrinare il naturale rapporto di fiducia. Penso che intraprendere un percorso adottivo voglia dire accettarsi in toto, con la consapevolezza che c’è stato un “prima” e che è proprio su quel prima che bisognerà costruire insieme il rapporto. Sono due storie, quelle del bambino e quelle dei genitori che devono fondersi per trovare continuità, è per questo che affrontare insieme le famose domande che Bibo fa è estremamente importante, ricordando però che il grado di complessità e i dettagli della storia variano a seconda dell’età.
Per quanto riguarda i casi in cui non entra in gioco il differente colore della pelle, è vero che il libro sembra adatto soprattutto per affrontare l’adozione internazionale, ma volendo si presta anche per un utilizzo più ampio.
La percezione della propria immagine allo specchio può anche essere letta come simbolo della necessità di conoscere la propria identità, il proprio passato; ci si serve del colore come artificio per innescare la rivelazione, ma si può anche non soffermarcisi troppo, non si parla di marrone e rosa, ma di arancione, di blu, di verde, colori che restano nella dimensione della fantasia, in quel mondo.
Ce ne si può servire però per ragionare sul concetto di diversità a tutto tondo, sul fatto che non c’è un “Altro” rispetto a sé quanto piuttosto che siamo tutti “Altri”.
Tutti, indipendentemente dalle nostre origini, abbiamo caratteristiche che ci rendono diversi gli uni dagli altri, ma anche altre che ci accomunano ed è questo che ci permette comunque di stare bene insieme e di vivere una storia comune.
Anche nella conclusione della fiaba la questione del colore sembra andare in questa direzione, quando Bibo, durante uno dei suoi viaggi con i genitori, torna nel Paese dei Bambini Soli per rivedere il suo amico Milo e si accorge di una cosa che non aveva mai notato, cioè che non è blu come lui, ma verde, la conferma che siamo proprio tutti diversi, ma uguali.
Tutto giustissimo quello che dite. Però mi chiedo come e quando affrontare l’argomento? Come iniziare con un bambino che ha già vissuto assieme ai suoi genitori adottivi un certo periodo l’argomento riguardante la sua nascita? Forse è più semplice con un bimbo che abbia già qualche anno al momento dell’adozione: se ne può parlare immediatamente. Ma quando un bambino viene preso neonato, quando viene il momento migliore per affrontare l’argomento? La mia paura è solamente quella di causare un dolore o smarrimento o addirittura l’impossibilità a capire….
Innanzitutto scusate il ritardo con cui rispondo! Nonna Maria, capisco e condivido le tue paure, il timore è sempre quello di traumatizzarli. Recentemente ho letto un libro molto interessante sull’adozione, in cui si affronta anche la questione che sollevi e che fa riflettere su come si possa parlare dell’adozione sin da piccolissimi. In particolare c’è un passo che vorrei condividere: “Fin da quando era piccolo, quando gli davo la pappa sul seggiolone, gli raccontavo questa bellissima storia, gliela mimavo, e lui si faceva un sacco di risate: gli raccontavo che era nato in un paese bellissimo […]. Gli parlavo del Brasile. “Poi sono arrivati mamma e papà. Siamo stati insieme. Abbiamo preso l’aereo – gli mimavo l’aereo e l’arrivo – siamo arrivati a casa e c’è stata una grande festa.” – Inserivo il termine adozione e ne parlavamo quando capitava l’occasione. Una sera a cena, forse non aveva ancora 3 anni, ci ha detto “Si, lo so, voi mi avete adottato”. Ma chissà che significato aveva per lui quella parola! Abbiamo lasciato che crescesse. La consapevolezza è venuta dopo” (A. Oliverio Ferraris, Il cammino dell’adozione, Rizzoli, p. 224).
Come è accaduto per il bambino protagonista di questa testimonianza, io condivido l’idea di iniziare a parlare dell’adozione subito, sin da molto piccoli (già in età prescolare), consapevoli però, che sarà necessario tornare sull’argomento più volte, poiché la comprensione dell’adozione segue le fasi dello sviluppo cognitivo e un bambino piccolo, di 2, 3, 4 anni pur dicendo si sé stesso di essere stato adottato potrebbe non capire a pieno e necessitare di ulteriori spiegazioni.
Si parla di un disvelamento graduale in cui si decide quali informazioni dare e il modo in cui farlo, a seconda dell’età. Ovviamente si ometteranno alcuni particolari , così come vi sarà la necessità di “addolcire” la verità se ci troviamo di fronte ad un bambino ancora piccolo.
Si inizierà quindi a gettare “un semino” che germoglierà con il tempo, attraverso una narrazione dapprima quasi fiabesca, che si arricchirà mano a mano di contenuti e spiegazioni.
Indipendentemente dall’età, ciò che veramente conta per la rivelazione è lo stato emotivo dei genitori adottivi: di fondamentale importanza, infatti, è riuscire a mantenere uno stato di tranquillità per non correre il rischio di far trapelare i timori e l’ansia che il momento del disvelamento creano negli adulti e di trasmetterli ai bambini. Ancora prima di capire il significato della parola “adozione” i bambini percepiscono lo stato d’animo dell’adulto. Se poi raccontare la verità diventa un’impresa troppo ardua da sostenere da soli, penso sia utile cercare un supporto professionale, magari rivolgendosi all’ente che ha seguito l’iter adottivo che potrà fornire consigli e supporto.
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