16 anni, un immenso coraggio e una grande voglia di combattere per cambiare le cose. Questa è Malala Yousafzai, la giovane donna pachistana la cui storia ha fatto il giro del mondo, che lo scorso ottobre è stata ferita da un colpo di pistola alla testa mentre tornava a casa da scuola, per mano dei talebani e che, caso più unico che raro, ha proprio ieri ricevuto delle (quasi)scuse da parte di un comandante talebano.

Il motivo dell’aggressione? Innanzitutto quello di essere una donna, ma soprattutto di un tipo non contemplato dalla maggior parte dei regimi fondamentalisti, quello della donna che non ci sta a piegarsi e rinunciare ai propri diritti, alla propria vita.

A soli 11 anni Malala inizia a tenere un diario per la BBC in cui racconta di sé, della sua quotidianità, ma soprattutto di cosa voglia dire essere “femmina” in un paese come il suo. Delle ingiustizie e delle discriminazioni che alimentano la sua lotta a favore del diritto allo studio delle bambine, considerato il vero motore per il cambiamento. Una grande forza la sua, protagonista anche del libro “Storia di Malala” edito da Mondadori.

Proprio per il suo impegno, lo scorso 12 luglio, giorno del suo sedicesimo compleanno, Malala ha tenuto un discorso all’ONU per condividere la sua storia, testimonianza dell’importanza dell’educazione come strumento dell’emancipazione femminile e di una società più libera e giusta.

Libri e penne sono tra le armi più potenti. Un bambino, un insegnante, un libro e una penna sono in grado di cambiare il mondo”. Queste le parole con cui Malala ha concluso il suo discorso, pronunciate con una dignità senza pari. Parole che ci indicano chiaramente la strada da seguire per produrre un vero cambiamento culturale che consentirà alle donne di essere protagoniste della loro vita e delle loro scelte, per permettere quell’empowerment femminile di cui altre volte abbiamo parlato.

Una maggiore istruzione equivale a un maggiore grado di consapevolezza che consentirà alle bambine oggi, e alle donne domani, di negoziare la propria posizione nelle questioni che riguardano loro stesse e gli altri, di ribellarsi.

La scuola è il luogo principale in cui vengono scambiate informazioni, dove avviene la socializzazione primaria, in cui si gettano le basi della propria individualità. Un enorme potenziale da sfruttare per operare una svolta nella lotta alle disparità, che da solo però non basta.

Abbattere le barriere di genere all’accesso all’istruzione, infatti, non significa solo permettere alle bambine di frequentare la scuola, ma soprattutto offrire un’educazione che sia davvero inclusiva, che si faccia carico dei bisogni di tutti e educhi sin da piccolissimi al rispetto reciproco e alla parità di diritti.

Liberare le donne dalla dipendenza che caratterizza l’esistenza di molte, attraverso l’educazione, potrà essere un obiettivo raggiungibile unicamente se s’individueranno azioni che prevedono anche il coinvolgimento degli uomini. Solo così la mentalità e la cultura potranno davvero cambiare e quei diritti di uguaglianza sanciti sulla carta, potranno diventare realtà.

Ed è proprio questo che unisce le 10 ragazze, accomunate dallo stesso sogno, che si sono raccontate sul Corriere della Sera di sabato 13 luglio in un bellissimo articolo a firma di Michele Farina.

Ve ne riportiamo le testimonianze:

Sylvie cammina per un’ora e mezza ogni giorno in piena savana per andare a scuola con le sue ciabatte (le uniche che possiede). Vive in Tanzania dove il 45% della popolazione ha meno di 14 anni. Lei ne ha 8.

Soumata ha smesso di andare a scuola a 16 anni perché ostracizzata dalla madre e incinta di un ragazzo che l’ha lasciata (il padre era l’unico che credeva nel’importanza dell’istruzione è morto). Un giorno hanno bussato alla sua porta le Student Mother Associations che la stanno aitando a realizzare il suo sogno: diventare ostetrica.

In Vietnam May viene rapita mentre va a scuola. La famiglia versa qualche soldo e alcool ai fratelli di May che la tengono prigioniera a casa del suo “promesso sposo” e che, ritenuta adeguata la somma, la liberano. Gli uomini – racconta – non amano le donne istruite preferiscono le spose bambine che lavorano nei campi.

Chas, 15 anni, è la maggiore di otto fratelli. Vive in Cambogia e si alza ogni giorno alle 4.30 e prepara cibo per tutti. La strada per la scuola è di 4 km e con le inondazioni tutto è più complicato. Ma le non demorde anche se molte sue amiche non vanno più a scuola perché, nella stagione secca, devono subire anche le molestie degli uomini.

In Thailandia il 90% delle donne sa leggere e scrivere. Ma ci sono donne come Namee che non si accontentano. A 17 anni si sveglia alle 5 per aiutare la mamma nelle faccende di casa e alla 6 parte e percorre 7 km di colline per andare a scuola. Più altri 7 nel pomeriggio.

Se tutte le ragazze in Bolivia arrivassero alla scuola secondaria il pil del paese guadagnerebbe lo 0,2% che significa 123 milioni di dollari. Fortuna quindi che esistono ragazze come Betzabè e genitori come i suoi che la spronano nonostante i pericoli che incontra sulla strada. Ma lei vuole diventare veterinaria.

Quando aveva 12 anni Faridah venne molestata da un ragazza. Suo nonno la vide, la condusse a casa e la picchiò impedendole da quel momento di andare a scuola. Il marito che sposò due anni dopo fece lo stesso: la picchiò perché scopri che aveva ripreso gli studi. Poi l’ha buttata fuori di casa: nel suo paese studiare è un disonore e un motivo valido per divorziare.

Maria ha 12 anni e vive nelle Filippine. Si alza alle 4. va a vendere verdura al mercato del villaggio per aiutare la madre malata che è stata abbandonata dal padre quando lei stava per nascere. Andare a scuola a stomaco vuoto- dice – non aiuta la concentrazione; andarci coi vestiti stracciati non aiuta la socializzazione. Ma lei ci va. E finite le lezioni torna al mercato.

Yiè ha 13 anni e frequenta il liceo classico. Cosa non comune per una ragazza del Camerun. Unico caso tra gli ottocento bambini di etnia pigmea Baka ad aver raggiunto la scuola secondaria. Ma lei vuole diventare ministro delle Donne del Camerun.

Sono delle sognatrici? Per fortuna si. E noi? Quando immaginiamo di poter fare qualcosa per loro siamo delle sognatrici? Noi vogliamo pensare di no. Raccontiamole queste cose ai nostri figli perché Malala, e tutte queste ragazze e donne come lei, diventino davvero un simbolo.

Photo National Women’s History Museum

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